Editoriale. Big data in rete, un contesto sconosciuto e preoccupante

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Mi è capitato di recente di approfondire una tematica sulla destinazione dei nostri dati che, quotidianamente e molte volte inconsapevolmente, rendiamo disponibili sulla rete globale per svariate operazioni: dal commercio elettronico, ai questionari, dalle registrazioni sui blog, alla profilazione sui social network, ecc., scoprendo un contesto assolutamente sconosciuto e preoccupante.

L’ulteriore allarme generato dalla vicenda di Cambridge Analytica sull’uso di informazioni per circostanze che hanno riguardato sia la Brexit che le Elezioni Americane, ha aperto una riflessione sulle modalità con le quali si alimenta la comunicazione politica anche nel nostro Paese e sul perché si affermano i movimenti populisti, i quali ricevono, da questo sistema informativo e comunicativo, la loro linfa vitale.

La disponibilità di questa enorme mole di dati consente agli analisti di conoscere ogni dettaglio della nostra intimità, dall’orientamento politico, alle preferenze per gli acquisti, dal tipo di carattere, ai nostri gusti in vari settori. A tutto questo pensa la cosiddetta psicometria, una scienza sviluppata fin dagli anni 60 che permette di ricavare i profili psicologici ed i gusti delle persone a partire dai loro comportamenti.

Inoltre nell’era della connessione perenne e globale non c’è spazio per i dubbi e quando ne sorge qualcuno basta rivolgersi ad uno dei tanti motori di ricerca.

Secondo Zuckerberg, Facebook è solo “uno strumento che vuole rendere il mondo un po’ più piccolo”, ma è diventato, in realtà, una formidabile macchina da soldi da 500 miliardi di dollari l’anno (il PIL della Svezia), per un business che si nutre di una risorse sempre più scarsa: la nostra attenzione.

I social Media si stanno affermando come una sorta di criptogoverno la cui funzione è controllare tutti i membri di un “partito” virtuale e convertire i dissidenti ad una nuova ideologia, dotato, altresì, anche di una polizia politica, sul modello della “psicopolizia” preconizzata da Orwell nel 1949, che può intervenire in ogni operazione sospetta di eterodossia e di deviazionismo.

L’unica forma di pensiero ammissibile è una sorta di digitopensiero ispirato al materialismo dialettico in cui la “menzogna può diventare realtà e passare alla storia”.

Al centro di tutto ci sono i media, che possono essere la scuola della virtù o il teatro della calunnia, fomite del venticello che tutto travolge, attraverso meccanismi di amplificazione estremamente persuasivi, dove la forma diventa sostanza.

In questo contesto l’unica vera speranza per assicurare un baluardo alla deriva dei populismi è garantire capacità di analisi e riflessione, nell’affermazione del principio della moderazione che è la sola che conferisce i requisiti di ponderazione nelle scelte. Solo questa capacità, di aderire al momento storico e al succedersi degli eventi e di fasi diverse, consente di conservare e far affermare l’ininterrotto primato della moderazione, quale schema che si ripropone ancora una volta vincente in uno scenario segnato da una alternativa non praticabile e che conferma ancora l’egemonia della ragione, almeno fino all’estenuarsi di questo modello. In tutto questo c’entra l’impoverimento e lo spaesamento, l’insicurezza che in un’epoca di globalizzazione ha allargato a dismisura la platea degli utenti che si sono affrancati da un modello comunicativo ed informativo d’elite, conquistando, attraverso i social media, nuove modalità di scambio interattivo, il quale, spesso scadente, rende, tuttavia, liberi dai principi identitari. Più che di globalizzazione si potrebbe parlare di “glebalizzazione”.

Ma ci siamo mai chiesti cosa cercano i milioni di persone armate di telefonini o fornite di computer collegati a Internet? Cercano solo la comunicazione con gli altri o chiedono piuttosto una nuova conoscenza, una nuova verità, la chiave di una nuova filosofia?

Probabilmente è così. E’ vero che la società di oggi sembra aver dimenticato che la base del progresso, e in fondo della felicità, non sono il profitto o il potere, quanto l’intelligenza e il sentimento, e che non può esserci solo il primato della tecnologia. Ma i giovani non hanno dimenticato le esigenze dell’anima, ed io non credo che oggi ai giovani manchi la speranza.

Ma in questi processi comunicativi spesso la nostra identità si sdoppia ed il mondo reale e quello virtuale possono separarsi incappando in serie patologie e in crisi identitarie con perdita del senso di realtà.

I sociologi definiscono questo tempo Postmodernismo, ossia oltre la modernità, che è caratterizzato, nell’epoca del web, per il suo incontrollabile e inverificabile flusso e scambio di notizie, per l’invadenza della pubblicità, per la costruzione o l’annullamento di profili personali. Ormai circondati dalle più svariate e sofisticate informazioni tecnologiche, ci si trasforma, più o meno consapevolmente, in cittadini di un mondo ‘connettivo’.

Non vi sono però solo aspetti negativi, la rete può diventare anche un laboratorio di identità, offrendo sia l’opportunità di costruire nuove identità che di sperimentarle. E’ possibile costruire un sé vago e con caratteristiche appena accennate, di cui sbarazzarsi velocemente, ma è anche possibile inventare identità complete e delineate la cui vita virtuale è importante tanto quanto quella reale. Quindi la rete può essere vista anche come potenzialità per scoprire aspetti repressi o inediti di sé, per appropriarsi, in un mondo protetto, di competenze da giocare poi nel mondo reale.

Il vero problema, ricorrente in ogni tempo, è il paradigma dell’ambivalenza della storia. Ma qui occorre allargare il discorso. Si pensi alla mondializzazione. E’ la peggiore, ma anche la miglior cosa che ci potesse capitare. Non si può vedere da un lato tutto il bene e dall’altro solo il male. Nella storia il bene spesso è stato causa del male.

Il mix delle informazioni su alcuni miliardi di persone (c.ca il 30% della popolazione mondiale) per la prima volta nella storia dell’umanità sono nelle mani di un’Azienda privata, la quale dispone di un’arma potentissima, della quale sembra non avere piena coscienza.

Lo stesso Zuckerberg afferma che ci vorranno molti anni per mettere in sicurezza i dati e sistemare il social network. A quest’ultimo vengono poste numerose domande che non sempre è in grado di soddisfare: se siamo manipolati, ovvero se i dati sono protetti dagli hacker, ed ancora in che misura questi dati sono condivisi con altri operatori che potrebbero farne un uso malevolo o distorto.

Insomma abbiamo messo la nostra vita in una sorta di “banca della quale non conosciamo nulla, né i cassieri, né le regole degli amministratori, né la sicurezza delle casseforti” e dalla quale, neanche volendo, potremo mai uscire.

Antonio Capristo

ingegnere

 

 

 

 

 

 

 

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