Calopezzati. Intervista a Maria Maiarù, ricercatrice calabrese a Londra

CALOPEZZATI. Originaria di Calopezzati, nel 2010 Maria Maiarù si laurea in Faramacia presso l’Università degli studi “Magna Graecia”. Lo stesso anno frequenta il Dottorato in biochimica ed attività dei farmaci in oncologia presso l’Unical, cofinanziato dalla regione Calabria e dall’Unione Europea, il quale prevede l’obbligo di un anno di studi all’estero. Per questo motivo sceglie Londra e in particolare l’University College London (UCL), prestigiosa università britannica. Al termine (2013) rientra in Calabria per dottorarsi e, dopo un mese di posizione come ricercatrice sempre all’UCL, ottiene il titolo di “Research Associate”( Ricercatrice associata) del Department of Cell & Development Biology della medesima università. Ha fatto parte del team che ha scoperto che isolando la proteina dello stress si può ridurre il dolore cronico, ricevendo il prestigioso Early Career Neuroscience Prize 2016. Nel 2019 vince il concorso come “Lecturer in Pharmacology” all’University of Reading, affiancando all’attività di ricerca l’insegnamento. Abbiamo intervistato la dottoressa Maiarù in occasione dell’ultimo importante riconoscimento da lei ottenuto, ossia, la Borsa di studio della Accademy of Medical Sciences per ‘’Magic mushroom pain research’’.

Ha da poco ricevuto la Borsa di studio della Accademy of Medical Sciences per ‘’Magic mushroom pain research’’. Cos’è e in cosa consiste?

Tra le pochissime borse di studio che vengono assegnate dalla Accademy of Medical Sciences in tutto il Regno Unito ogni anno , quest’anno c’è stata la mia. Essa permette di finanziare la ricerca sul dolore cronico attraverso 100.000 sterline che coprono le spese di ricerca e l’assunzione di un assistente al progetto. L’obiettivo è scoprire i meccanismi attraverso cui la psilocibina – droga psichedelica che si trova nei funghi allucinogeni – può aiutare ad alleviare o curare il dolore cronico.

Cos’è il dolore cronico?

Il dolore cronico è un dolore la cui durata si estende oltre sei mesi. Tutta la mia ricerca ha in oggetto il dolore cronico, che è molto comune; 1 persona su 5 della popolazione mondiale è affetta da dolore cronico. In Italia circa 13 milioni di abitanti, mentre nel Regno Unito circa 30 milioni. Purtroppo la maggior parte dei pazienti non riceve una cura adeguata in quanto i farmaci disponibili al momento non sono efficaci. Prendiamo il caso della morfina, il migliore per il dolore severo: nei pazienti con dolore cronico non funziona. Un altro esempio sono gli oppiacei: funzionano bene per il dolore ma a lungo termine comportano un enorme rischio di dipendenza e overdose. Alcuni soggetti sottoposti alla chemioterapia sviluppano dolore dovuto alla chemio stessa, tant’è che alcuni devono sospenderla con le conseguenze che conosciamo. Per loro non ci sono ancora farmaci, ed io mi occupo di studiare le dinamiche inerenti al dolore cronico per svilupparli.

Qual è la tesi che intende dimostrare?

Il dolore ha per definizione una componente emotiva: gli studi dimostrano che pazienti con dolore cronico sviluppano ansia e depressione. Sappiamo che i farmaci contenenti psilocibina riducono la depressione nei pazienti resistenti ai farmaci antidepressivi. Sappiamo inoltre che il dolore cronico induce cambiamenti in alcune aree del cervello e che la psilocibina agisce su recettori espressi in queste aree. L’ipotesi di questo studio è che il trattamento con tale farmaco possa ripristinare le funzionalità di queste aree e come conseguenza ridurre il dolore nei modelli preclinici di dolore che utilizziamo. Sfruttiamo pertanto un meccanismo noto che è la presenza del recettore per i farmaci allucinogeni nella corteccia prefrontale poiché sappiamo che la corteccia prefrontale è coinvolta nei meccanismi del dolore. Il sistema nervoso umano, infatti, è molto conservativo: c’è lo stesso recettore espresso in un sacco di tessuti diversi. Ciò accade ad esempio con la morfina; la morfina non si trova solo sulle aree di dolore ma anche in quelle del cervello che generano poi la dipendenza. Un eroinomane non prende l’eroina perché ha dolore ma perché ha una dipendenza da eroina: lo stesso recettore della morfina si trova nell’area del cervello che controlla la dipendenza.

Sta lavorando ad altre ricerche?

Dal 2014 sto eseguendo uno studio che adesso trova seguito in America e che prende in considerazione il botulino modificato per il trattamento del dolore cronico. Secondo la ricerca preclinica sui topi, queste nuove molecole di botulino non paralitico possono alleviare il dolore cronico senza rischio di paralisi o dipendenza. Negli animali a cui è stato somministrato si è registrata la riduzione del dolore fino a tre mesi, senza effetti negativi. Secondo ciò con una singola iniezione di Botox ogni 4/5 mesi potrebbe aiutare fino al 20% della popolazione che convive con il dolore cronico, aumentando la qualità di vita di milioni di persone in tutto il mondo. Questo studio pilota se seguito da risultati positivi potrebbe far partire uno studio clinico nei pazienti.

Quali requisiti le farebbero considerare un ritorno in Italia?

Sono in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), l’Università Tor Vergata e il Presidente dell’Istituto Italiano per la Ricerca sul dolore, William Raffaeli. Non ho mai lavorato in Italia. Dall’asilo all’Università, lo Stato italiano per formare un ricercatore  investe circa 550.000 euro. Quando potremmo essere ‘’produttivi’’ sia perché ‘’pronti e competenti’’ sia a livello di tasse che dovremmo pagare, esso ci lascia andare. Noi non abbiamo modo di restituirgli quello che ha investito perché emigriamo per trovare condizioni di lavoro migliori. Urge un trattamento equo: l’unico concorso a cui ho partecipato post dottorato presso un’università italiana mi ha vista tra le vincitrici ma anche spettatrice di un colloquio altrui pilotato: vi era una candidata interna già visibilmente favorita. Nel Regno Unito questo non mi è mai successo, godo di un certo prestigio e ho la possibilità di vivere di ricerca e insegnamento, seppur con l’amaro di non poter rappresentare il mio Paese, ma un altro. Ci vorrebbe un cambio di rotta delle politiche e di conseguenza delle università: meritocrazia e giusti incentivi per la ricerca, altrimenti sì, avremo i migliori chirurghi e i migliori ingegneri, ma come adesso, sparsi nel mondo. E se sono queste le condizioni… a malincuore e per amor proprio, non possiamo che rimanere figli lontani dell’Italia.

Cosa le piace di più della sua professione e cosa invece meno?

Non saprei fare un altro lavoro perché ho sempre fatto questo. La cosa che più mi piace è la soddisfazione per i risultati promettenti. Da piccola sognavo questo: aiutare gli altri. Un giorno spero che la mia ricerca potrà farlo. Della mia professione amo tutto, portare i miei studi per il mondo, confrontarmi con i colleghi. L’unica nota dolente è sempre la difficoltà a reperire i fondi ma anche in questo cerco di trovare il lato positivo: meno risorse più competitività che per me si è tradotta in dare il meglio che posso.

Cosa si dovrebbe fare per facilitare l’accesso delle donne alle discipline STEM?

Nel mio dipartimento, farmacologia, vi sono più donne che uomini. Se rifletto sull’ambiente scolastico in cui ho ricevuto la mia prima istruzione e poi la formazione universitaria penso che si dovrebbe sradicare l’idea dell’astronauta o dell’ingegnere solo al maschile; abbiamo dimostrato ampiamente che si tratti solo discriminazioni di genere che non hanno fondamenta scientifiche. Questo si declina anche in maggiore fruizione della scienza fin da piccoli. Come la scuola anche la famiglia deve adottare quest’ottica. La mia per fortuna, oltre a finanziare gli studi che ho scelto da sola, ha sempre creduto in me e nelle mie capacità. Sono cose che purtroppo non viaggiano imprescindibilmente insieme.

Virginia Diaco

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