Religiosi scandali Rossanesi, racconto di Martino A. Rizzo

«… la carne è debole ..», queste poche parole riassumono una spiacevole verità, inconfutabile, che non ha bisogno di essere dimostrata. Anche le strutture ecclesiastiche rossanesi, nel corso della loro antichissima storia, purtroppo ne hanno sofferto a causa di alcuni episodi peccaminosi commessi da loro rappresentanti.

Il primo caso di cui si ha notizia riguarda addirittura un vescovo: Antonio Sergentino Roda, vescovo di Rossano dal 9 aprile 1434 al 2 ottobre 1442, data della sua destituzione. Nel Registro Camerale presso il Vaticano si legge che la sanzione della rimozione fu decisa «… ob gravissirna scandala par eum commissa .. ». Altro non si sa. Comunque lo scandalo commesso doveva essere stato veramente grave se si arrivò a erogare nei suoi confronti una sanzione così pesante. E purtroppo nessun storico indagò su tale vicenda per consentire ai posteri di avere qualche notizia in più. Si preferì mantenere una rigorosa riservatezza. Nel 1438 Roda scrisse però due componimenti sulle disavventure rossanesi, presentandosi come un perseguitato. Questi componimenti, i cui testi sono passati alla storia della letteratura calabrese, hanno perciò fornito un indizio per far conoscere delle sue traversie.

Un discorso a parte meritano gli ordini monastici che, non avendo dipendenza dal vescovo della diocesi, erano per certi versi delle città-stato indipendenti.

L’Abate del S. Salvatore di Messina, sulla cultura e sulla vita dei religiosi greci dell’Italia meridionale, nel 1581 scriveva: «Quanto alla lingua sono tutti così ignoranti, che dicendo io ad un monaco, Priore vecchio e dei più principali, che mi declinasse il nominativo Pater, per essere il primo nome del Pater Noster, non ne sepe dir niente, e vedendo che io conosceva la verità, mi confessarono tutti i monaci che non sanno gramatica. Ma che dico io di gramatica? Monaci ho trovato che dicendo missa, quando arrivavano alla epistola et all’evangelio, bisognava accostarsi all’altare uno degli altri che sapesse legere manco male et recitasse la epistola e l’evangelio, per ch’il resto della missa, come erano monaci vechi, lo dicevano di memoria così difituosamente come V.S.I. può giudicare». «Quanto alla vita poi sono cosi cattivi che non mi par che si debbano numerar fra monaci mali, ma fra laici pessimi; e per dir in somma particolarmente della dishonestà, ho trovato in un monasterio tre diaconi figli di tre monaci di questa religione, et ho trovato tanto peggio… ».

Il 25 aprile 1567 il Vicario Generale della Diocesi di Rossano fece pervenire al Cardinale Guglielmo Sirleto un’accurata supplica sulla situazione del monaci del Patire.

A Sirleto era stato assegnato il compito di riformare l’Ordine Basiliano ed era perciò la persona giusta da informare su cosa accadeva nel glorioso monastero rossanese. Con la sua missiva il Vicario raccontava che: «Avevo sempre sperato che Vostra Eminenza sarebbe venuta di persona a visitare l’Abbazia; avrei allora espresso a V.S. Rev.ma il desiderio dell’Arcivescovo e di tutto il suo clero, che è quello di vedere questi monaci starsene nel loro convento, dove noi non ci prenderemmo la briga di andare a vedere quello che fanno; piuttosto che vederli sciamare per Corigliano e altrove e comportarsi disonestamente, tenendo le concubine, fando tante sorte de industrie et mercantie, committendo molti eccessi et delitti, senza superiore che le correga».

Nel 1572 fu il Sindaco di Rossano a scrivere a Sirleto per scongiurarlo di castigare i monaci del Patire e di «mettere al loro posto gente di vita buona».

Nel 1574 tornò alla carica con Sirleto direttamente l’Arcivescovo di Rossano, Lancillotto Lancellotti, che descriveva l’Abbazia come «asilo di uomini di malaffare» e riferiva che un brigante, prima di essere impiccato a Bisignano, aveva confessato di avere avuto complici dei suoi misfatti i monaci del Patire. Monaci i quali avevano attaccato i soldati dell’Arcivescovo al grido di «uccidi, uccidi», riempendo di botte i due preti che le guardie stavano scortando.

Altra brutta vicenda si verificò tra il 1775-76 è interessò l’abate del Patire Clemente Oliverio. Questo abate, invece di dimorare nel monastero, se ne stava abitualmente a Corigliano. Alcuni monaci l’accusarono di mal governo e di appropriazione indebita di capitali dell’abbazia «e per aver commesso molti eccessi scandalosi, e contro la Regolare osservanza anche con introduzione di donne nel refettorio ed ufficine del detto Monistero, …..».

La rilassatezza dei costumi comunque non albergava solo al Patire ma era entrata anche nella Diocesi di Rossano. Monsignore Paolo Gaetano de Miceli, vescovo di Rossano dal 1804 al 1813, dovette affrontarla con zelo e doverosa energia. Infatti, secondo lo storico Alfredo Gradilone, la disciplina morale del clero in quel periodo lasciava molto a desiderare. Già durante l’assenza di de Miceli, il Vicario capitolare Giustinano Corio, visitando le chiese di dieci comuni della diocesi, aveva dovuto constatare la poca decenza nel vestire di taluni preti di Corigliano e in particolare di quelli secolarizzati, quelli che non appartenevano a nessuno ordine religioso. Pertanto ne informò il Ministero del Culto a Napoli denunciando che: «Ho rilevato di non fare uso essi della veste talare, non solo per le sacre funzioni della chiesa, ma neppure per la celebrazione del Santo Sacrificio della messa».

Questi fatti comunque erano poca cosa rispetto al libertinaggio che era entrato nella vita di alcuni ecclesiastici. Mons. de Miceli dovette intervenire con mano ferma nei confronti di un canonico molto liberale: don Giacinto Ioele, parroco della Chiesa della SS Trinità, quella che era in Piazza Steri dove ora si trova la Torre dell’Orologio.

Don Giacinto era stato tra i rivoluzionari del 1799 e – secondo lo storico Luigi Ripoli – una domenica mentre predicava dal pulpito trasformò il sermone in un comizio, apostrofando la regina Maria Carolina col termine «puttana». Ma, fatto ancora più grave, aveva una tresca con la moglie sedicenne del fratello, Teresa Domanico. Per mettere un tappo alla falla senza creare clamore, in quanto la vicenda coinvolgeva due famiglie note del paese, il vescovo dovette intervenire con grande severità, accompagnata però da una necessaria prudenza. Prese perciò la decisione di trasferire il Ioele presso il Convento dei Minimi di Corigliano e così lo allontanò dalla tentazione, sperando – al contempo – in una sua riflessione e nel pentimento.

Martino A. Rizzo

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo, rossanese, vive da una vita a Firenze. Per passione si occupa di ricerca storica sul Risorgimento in Calabria. Nel 2012 ha pubblicato il romanzo Le tentazioni della politica e nel 2016 il saggio Il Brigante Palma e i misteri del sequestro de Rosis. Nel 2017 ha fondato il sito anticabibliotecacoriglianorossano.it.

Nel 2019 ha curato la pubblicazione dei volumetti Passo dopo passo nella Cattedrale di Rossano, Passo dopo passo nella Chiesa di San Nilo a Rossano, Le miniature del Codice Purpureo di Rossano. Da fotografo dilettante cerca di cogliere con gli scatti le mille sfaccettature del paese natio e le sue foto sono state pubblicate nel volume di poesie su Rossano Se chiudo gli occhi.

 

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