Quel gran cuore della baronessa Compagna, racconto di Martino A. Rizzo

Un ritratto della Baronessa Compagna

Corigliano Rossano – È risaputo che per contare i Tommaso Moro, i don Fabrizio Corbera, principe di Salina, e altri uomini di questo spessore, è sufficiente utilizzare le dita di una mano, una soltanto. Personaggi che, pur cambiando il mondo intorno a loro, hanno avuto il coraggio di continuare a mantenere fede alle proprie convinzioni, senza rinunciare a idee e rapporti precedentemente consolidati, senza seguire le mode o il vincente di turno, pur consapevoli che la coerenza li avrebbe esposti a rischi negli affetti, nelle sostanze e perfino della vita.

Invece lo spettacolo più ricorrente al quale si assiste nei momenti di trasformazione è quello del salto sul carro del vincente, cambiando maglia e mostrandosi al mondo, grazie a una buona dose di faccia tosta, come portatori del nuovo. Anche a Corigliano-Rossano, con poche eccezioni, è sempre stato così. Lo fu nel 1848, nel 1860, negli anni ’20 del Novecento, nel 1943-44, per citare alcuni passaggi famosi della storia.

Oggi voglio soffermarmi sul 1848, nel Circondario di Rossano, dove il dominus era il barone Luigi Compagna di Corigliano.

Luigi Compagna era sposato con Mariuccia Del Carretto, figlia di Francesco Saverio, terribile ex ministro della polizia del Regno delle Due Sicilie. Luigi dal 1843 era anche diventato Gentiluomo di Camera di Entrata di Ferdinando II con la  Chiave d’oro. Il suocero, il marchese Del Carretto,  era stato lo spietato capo della gendarmeria di Ferdinando II. Feroce nelle repressioni di tutti i movimenti insurrezionali libertari del Regno delle Due Sicilie. Protagonista dell’atroce distruzione del villaggio di Bosco. Insomma, in soldoni, il barone Luigi Compagna, sia personalmente che da parte del suocero, con il regime dei Borbone era legato a filo doppio.

Ma il ’48 avanzava con degli alti sommovimenti dai quali era meglio non farsi travolgere. E il barone Luigi era uno molto attento a scansarli, anzi a cavalcarli. Si mosse addirittura per diventare capo della nuova Guardia Nazionale di Corigliano e riuscire così a tenere direttamente sotto il suo controllo l’ordine pubblico e l’evolversi della situazione. In questo frangente utilissimi risultavano i consigli della madre Isabella, che da Napoli non li faceva mancare. Il 19 aprile 1848 scrisse a Luigi raccomandandogli di guardarsi dal vecchio Crisafi, perché “è impossibile che ch’è stato sempre lupo possa mai diventare agnello”. “Guardatevi quindi da lui, come dal più fiero nemico”.

Ma chi era questo Crisafi che osava osteggiare il padrone incontrastato di Corigliano? Alessandro Crisafi era un uomo particolare, tutto d’un pezzo. Massone, dopo la reazione al 1799 era espatriato in Francia dove meglio poteva convivere con i suoi ideali libertari. Successivamente aveva servito con i francesi ed era malvisto dai potenti del paese per la sua intransigenza. Aveva otto figli di cui i primi tre maschi: Francesco (1814-1848), Antonio (1815-1848) e Giuseppe (1818-1848).

Il 29 aprile 1848 la baronessa Isabella scrisse ancora al figlio sperando che la tranquillità di Corigliano non fosse turbata dai “tentativi di Crisafi”.

A fine giugno però accade il patatrac. In un incontro che si tenne a Corigliano tra i maggiorenti della città per la riorganizzazione della Guardia Nazionale e l’individuazione di Luigi Compagna come suo comandante, Francesco Crisafi attaccò violentemente il barone con parole e toni così duri e offensivi che fu ritenuto più prudente, per precauzione, allontanarlo dalla riunione per evitargli guai, anche da parte degli uomini della guardia personale del barone Luigi.

In una lettera, il barone confessò che sarebbe stato per lui difficilissimo perdonare quella ‟offesa fattami in pubblico”.

La litigata plateale del suo primogenito col “padrone” del paese fece maturare in Alessandro Crisafi la determinazione che sarebbe stato meglio far allontanare i tre figli da Corigliano, per salvaguardare la loro incolumità. Venne perciò presa la decisione che partissero per la Sicilia. Mentre fuggivano, scortati da un servo, la notte si fermarono in Sila a dormire in un bosco. Ma qui, il servo, con l’ausilio di alcuni briganti, li uccise e decapitò. Le teste furono portate a Corigliano davanti all’abitazione della famiglia che la mattina al risveglio, aprendo l’uscio, si trovò ad assistere a quest’atroce spettacolo.

Anche la baronessa Isabella si addolorò per l’incidente dei poveri fratelli Crisafi e in una sua lettera al figlio del 26 luglio confessò che i giovani avevano “avuto quella sorte che forse con più ragione meritava il loro padre”.

Insomma non c’era giustizia in quel mondo: andava sì bene l’uccisione, pure la decapitazione. Il dispiacere era solo perché a essere stati uccisi e decapitati erano stati i giovani Crisafi  e non il loro padre! Cuore nobile quello della baronessa; non c’è che dire! D’altra parte, come si dice, noblesse oblige.

Fortunatamente, però, dopo questo triste episodio, “la tranquillità” iniziò a “regnare in ogni luogo”  anche perché, trascorsi qualche mese, pure il povero don Alessandro Crisafi, per il dolore per la sorte toccata ai figli, levò il disturbo dalla faccia della terra.

Martino A. Rizzo

 

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo, rossanese, vive da una vita a

Firenze. Per passione si occupa di ricerca storica

sul Risorgimento in Calabria. Nel 2012 ha pubblicato

il romanzo Le tentazioni della

politica e nel 2016 il saggio Il Brigante Palma e i misteri

del sequestro de Rosis. Nel 2017 ha fondato il sito

anticabibliotecacoriglianorossano.it. Nel 2019 ha curato la pubblicazione

dei volumetti Passo dopo passo nella Cattedrale di Rossano,

Passo dopo passo nella Chiesa di San Nilo a Rossano,

Le miniature del Codice Purpureo di Rossano.

Da fotografo dilettante cerca di cogliere

con gli scatti le mille sfaccettature del paese natio

e le sue foto sono state pubblicate nel volume di poesie

su Rossano Se chiudo gli occhi.

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