Monsignor Savino, il Vescovo fatto popolo

di ROSSELLA MOLINARI

IMG-20160211-WA0005Un “vescovo fatto popolo” che ha impostato il suo ministero episcopale all’insegna della carità e della solidarietà, interpretando al meglio il motto di una “Chiesa dalle porte aperte”, per accogliere ma anche per uscire ed essere più vicini alla gente. Monsignor Francesco Savino, don Francesco come ama farsi chiamare, il 28 febbraio 2015 è eletto da Papa Francesco Vescovo della Diocesi di Cassano all’Jonio, dove inizia il suo ministero episcopale il 31 maggio dello stesso anno. Una vita spesa al fianco dei più deboli, “sul passo degli ultimi” per i quali ha realizzato e continua a realizzare tanto, convinto che siano loro la “carne viva” di Cristo e che solo attraverso una solidarietà reale si possa concretizzare appieno la missione della Chiesa su questa terra. Ideatore della Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano – Bitonto – Onlus”, in Puglia ha dato vita a Centri di ascolto e Case di accoglienza. E anche nella Diocesi cassanese è imminente la realizzazione di una casa di accoglienza che avrà sede legale a Castrovillari. All’interno della Sala degli Stemmi dell’Episcopio della Diocesi, ci parla della sua vita, dei suoi ideali e dei suoi obiettivi pastorali. Ma ci parla anche di una comunità e di un territorio dalle mille potenzialità che, sia pur ferito su più fronti, deve ritrovare la forza di risorgere. Superando la litigiosità, le divisioni e, soprattutto, quella rassegnazione che spesso fa prevalere la mentalità del “cappello in mano”.

Chi è don Francesco? 

Sono stato sempre un uomo alla ricerca del senso della vita, inizialmente un giovane che ha creduto nella possibilità di cambiare il mondo, di fare quella che, negli anni ’68-’70 in particolare, si chiamava “rivoluzione”, culturale e non, economica e non, sociale e non. Erano gli anni della contestazione e del cambiamento, sul versante ecclesiale gli anni del post Concilio, in quell’atmosfera che possiamo sintetizzare con “siate realisti, chiedete l’utopia”. Durante gli anni del liceo, ho frequentato il Liceo classico “C. Sylos” di Bitonto, l’incontro con il Vangelo e con Dio mi cambia la vita. A 19 anni, entro in seminario a Molfetta e nel 1978 divento sacerdote. Inizia così la mia esperienza a servizio della Chiesa, prima come viceparroco, poi come educatore e parroco. Dal 1989 ha inizio un’esperienza che per ben 26 anni è quella che più mi ha formato dandomi l’identità di prete fino al 27 maggio scorso, alla guida della Parrocchia Santuario Santi Medici all’insegna di una duplice fedeltà: quella a Dio e quella al mondo, incarnata soprattutto nella condivisione e nella solidarietà con le persone più fragili e più deboli. I poveri mi hanno convertito la vita, mi hanno evangelizzato, sono loro la “carne viva di Cristo”. Pensiamo poi ai diversamente abili e al grande problema del “dopo di noi”, che fa emergere la necessità di una rete territoriale oggi carente.

Manca il senso della comunità nella società attuale?

Sì, oggi prevale la cultura dell’individualismo e del narcisismo, l’affermazione dell’io che determina la distruzione della comunità. Noto molta divisione che fa comodo a chi vuole dividerci per affermare il potere di pochi e a chi non vuole che questo territorio cresca. Inoltre, mi rendo conto che una serie di elaborazioni, culturali e non solo, hanno determinato una cultura della rassegnazione, della sfiducia, dell’assistenzialismo a prescindere. In Calabria, invece, dobbiamo attivare processi di protagonismo sociale e di emancipazione, superando la cultura della rassegnazione, dell’individualismo, della sfiducia, del “cappello in mano”, della clientela, degli amici degli amici dove i diritti passano per favori o per elemosina.

Che  comunità ha trovato  e quali sono le sue impressioni su questo territorio che, non lo dimentichiamo, negli ultimi anni è stato profondamente segnato e scosso anche da tragedie quali l’uccisione di un sacerdote, don Lazzaro, e il brutale omicidio di un bambino di tre anni, il piccolo Cocò?

Ho trovato una comunità che ha mille potenzialità, voglio partire da ciò che vi è di positivo. Indubbiamente, vi sono tante ferite, ma cerchiamo di capovolgere l’osservazione e facciamo in modo che quelle ferite drammatiche diventino feritoie di liberazione e di luce. A breve, celebrerò una Messa nella parrocchia di don Lazzaro, a Lattughelle, e sono andato più volte in carcere a trovare la mamma e i parenti di Cocò, ho parlato anche con il papà. Cassano ha bisogno di una rivoluzione culturale e ha tutte le carte in regola per poterla attuare. Pensiamo al grande attivismo positivo che esiste e alle tante realtà associative che vi operano. Il problema è che dobbiamo imparare a vivere insieme, andando oltre le invidie, le gelosie e le autoreferenzialità.

Andando anche oltre l’eccessiva litigiosità che spesso caratterizza questo territorio…

Sì, e qui cito Hannah Arendt e il suo La banalità del male. Spesso, Cassano litiga e si fa del male per delle sciocchezze, delle banalità. Attenzione, la litigiosità non ci porta da nessuna parte, anzi, fa rimanere in una situazione di non crescita. Cassano e la Calabria nel suo complesso hanno tutte le potenzialità per risorgere, i primi segni di una primavera già li vedo. In alcuni centri, ci si prepara alle urne, io ho già avuto modo di confrontarmi con tutti i sindaci e gli amministratori eletti a presiedere il bene comune. A tutti loro dico sempre che la politica deve essere al servizio del bene comune, non il bene di qualcuno.

Può prevalere questo principio, secondo lei, dato che spesso si assiste ad una corsa al potere, alla conquista di uno scranno?

Il bene comune può e deve essere la priorità di un’agenda politica, a condizione che ci si domandi: “Cos’è la politica?”. Come diceva Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità, la politica è una forma di amore. Se la politica è gestione mera del potere al servizio del più forte, è chiaro che è destinata al fallimento più completo. Deve partire dagli ultimi, ridando loro dignità. Oggi una politica seria si qualifica soprattutto in base alle politiche di welfare: no assistenzialismo ma progetti, che rendano vivibile il territorio, anche dal punto di vista della tutela ambientale. La Calabria rischia di diventare una regione dormitorio. Non dimentichiamo la grande questione del lavoro e della emigrazione, non possiamo non raccogliere il grido dei giovani.

A proposito di giovani, nei suoi interventi si è spesso rivolto a loro esortandoli ad un risveglio delle coscienze. Cosa serve, secondo lei, ai giovani di oggi?

Innanzitutto dobbiamo essere onesti, noi adulti abbiamo lasciato ai giovani un mondo che non va e dobbiamo chiedere perdono. Siamo stati poco credibili. I giovani hanno bisogno di adulti credibili, di educatori credibili, di genitori credibili, di una classe politica credibile, di una Chiesa credibile, di sacerdoti e di un vescovo credibile. Come diceva Paolo VI, il mondo non ha bisogno di maestri ma di testimoni.

E questo territorio, in un’epoca in cui la crisi è anche di valori, di cosa ha bisogno?

Ha bisogno di fiducia. I calabresi devono avere più fiducia in se stessi e nelle potenzialità che il territorio offre, ma anche fiducia nelle relazioni umane. Recuperiamo la fiducia e figlia della fiducia diventerà senz’altro la speranza. C’è bisogno di un cambiamento culturale, che segua un po’ questo parametro: dall’io al tu, dall’individualismo alla comunità, dalla rassegnazione alla cittadinanza responsabile, dall’assistenzialismo passivo a un protagonismo di una comunità che vuole impegnarsi e metterci la faccia per cambiare la Calabria.

Questa è anche la comunità che ha ricevuto la visita, due anni fa, di Papa Francesco, giunto fin qui per portare un messaggio di speranza. Proprio da Sibari, inoltre, partì la scomunica nei confronti della criminalità organizzata. Ritiene che in qualche modo da quella visita sia cambiato qualcosa?

Dobbiamo ringraziare il mio predecessore don Nunzio Galantino perché ha portato qui il Papa, il quale ha ribadito chiaramente che c’è incompatibilità e inconciliabiltà tra Vangelo, fede, sacramenti e potere criminale, corruzione, violenza. Non c’è nessun accordo tra religione, fede e criminalità. Il papa ha anche esortato la Chiesa ad essere più vicina alla gente, una Chiesa con le porte aperte e ospedale da campo per tutti i feriti delle battaglie. Rivolgo un messaggio a tutti, credenti e non: svegliamo le coscienze, siamo protagonisti tutti di un nuovo umanesimo.

Charitas Christi urget nos è il motto che ha scelto per il suo ministero episcopale. Che significato ha e in che modo si intreccia con le attività che ha portato e porterà avanti in questa Diocesi?

Ho sempre fatto esperienza della carità, che è Gesù come amore di Dio nei confronti di ciascuno di noi. Dio ci ama non perché lo meritiamo, ma perché amandoci ci rende amabili. Vorrei essere un vescovo fatto popolo, voglio essere tra i cittadini, accanto a loro. Se riuscirò, attraverso questa mia testimonianza di amore, a rendere il mio territorio più bello, più vivibile, più solidale, allora la mia presenza in questa Diocesi non sarà stata vana.

Un messaggio ai nuovi poveri, a chi ha perso la speranza, ai migranti…?

Ho visitato tutte le comunità di profughi e immigrati della mia Diocesi e ho detto loro che non devono sentirsi abbandonati e soli. Accoglienza, integrazione, interazione e legalità sono le nostre parole chiave. Ho invitato la Diocesi e le famiglie a mettere a disposizione strutture per accogliere questi nostri fratelli. A tutti i poveri e alle persone disperate, dico: “Non sentitevi soli, la Chiesa di Cassano, con il Vescovo don Francesco, è con voi e sul vostro passo e farà di tutto per aiutarvi a recuperare dignità e libertà, aiutandovi a dare alla vostra vita un senso”.

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