Le cantine di Rossano e i loro riti. Racconto di Martino A. Rizzo

C’è stato un periodo in cui nel centro storico di Rossano si contavano una cinquantina di osterie, dislocate in ogni rione. Il termine osteria però non è mai stato utilizzato da queste parti e si è sempre preferito chiamarle cantine. In anni privi di televisione, per antica consuetudine, vi si recavano gli uomini per trascorrervi la serata e cenare, prima di rincasare per andare a dormire. Muratori, contadini, operai, terminato il lavoro, dopo essere passati da casa per ripulirsi e cambiare gli indumenti, uscivano di nuovo per andare a rilassarsi dopo una dura giornata di fatica e trascorrere qualche ora spensierata con gli amici.
Al Nord fungevano da luogo di aggregazione di questa umanità i circoli, le case del popolo, le osterie, a Rossano invece le cantine dove tutto girava intorno al vino.
Alcune cantine erano fornite anche della cucina che preparava pietanze calde, per lo più alici scattiate, baccalà con peperoni e pomodori, trippa e patate, salsicce e rape. In altre invece la bevuta si poteva accompagnare solo con un piatto freddo: mortadella, provolone piccante, olive, “freselle strusciate”, “sardella” e “pisci salati”.

La domanda che ricorreva spesso tra gli abitué delle cantine, quando s’incontravano nel tardo pomeriggio, nel rione o in piazza, era: “oggi dov’è che si può bere un buon bicchiere di vino?”. In pratica era l’esternazione del dubbio amletico su quale fosse quella sera l’osteria col vino migliore, magari spillato da una botte nuova. Infatti tra una cinquantina di locali c’era ampia possibilità di scelta. Quindi avuta la risposta era lì che s’indirizzava la combriccola degli amici. E se la risposta non c’era, si andava in esplorazione girandone tante, fermandosi in ognuna per fare dei piccoli assaggi per trovare quella giusta nella quale soffermarsi. In tal modo quando la scelta era matura, e si doveva entrare nel locale individuato, si era già brilli.
Normalmente però veniva preferita la cantina del proprio rione in modo che, se a fine serata si barcollava, diventava più facile raggiungere l’abitazione. E, anche se fosse stata necessaria la scorta di qualche amico di buon cuore per trovare e aprire l’uscio di casa il percorso sarebbe stato più breve. Si racconta anche di quante volte i compari, dopo una bella bevuta, si accompagnavano a vicenda alle rispettive abitazioni, senza decidersi a lasciarsi e facendo così un continuo anda e rianda, da una casa all’altra, prima di andarsene a dormire esausti.

Si è detto dei compari, infatti nella cantina si andava con gli amici, ma principalmente con i compari legati dall’antico “vincolo del San Giovanni”, più forte della parentela, in quanto legame elettivo.
Nell’osteria si beveva e si mangiava, ma anche si giocava a carte, si suonava, si facevano pettegolezzi, si raccontavano storie, si scherzava, si faceva ironia e in tal modo la cantina diventava luogo di cultura, quella popolare, quella del quotidiano, quella terra-terra, quella del sentito dire – e se non si era sentito dire nulla – quella dell’inventato.

La cantina aveva un suo particolare cerimoniale da rispettare. All’amico, al conoscente che entrava nel locale, chi già era dentro e stava consumando, in segno di stima e rispetto, doveva offrire una bevuta, un bicchiere, un quarto o un litro, in relazione al tempo in cui si sarebbe fermato. A tavola, al commensale più giovane toccava l’onere di versare il vino agli altri, provvedendo a tenere sempre colmi i bicchieri di tutti, gli sciannachèdd’. Guai a versarsi il vino per primo e, nella mescita, doveva seguire le priorità dettate dalla gerarchia presente nel gruppo. Poi all’ordine “fondo” che partiva da qualcuno della tavolata, tutti dovevano portare gli sciannachèdd’ alle labbra bevendo il vino contenuto nel bicchiere, fino all’ultima goccia. E se qualche goccia cadeva sul tavolo, veniva utilizzata per inumidirsi la fronte e il collo in segno di buon augurio. Inoltre mai versare il vino “alla traditora”, e cioè reggendo la bottiglia col dorso della mano rivolto verso il tavolo. Veniva considerato un segno di spregio e quindi altamente offensivo, con possibili conseguenze pericolose, anche a livello personale. Era un’epoca in cui a tavola ognuno utilizzava il proprio coltello a serramanico, che portava sempre con sé in tasca per qualsiasi necessità e che all’occorrenza poteva essere usato anche per punire un’offesa.
Scopa e tressette erano i giochi con le carte preferiti. Ma il divertimento principe della cantina era il “Padrone e Sotto”, gioco che consisteva nell’individuare – tirando a sorte – chi doveva svolgere il ruolo di “Padrone” e chi quello del “Sotto”. Una volta stabilite queste figure, il “Sotto” faceva le proposte di bevuta al “Padrone”, cioè in pratica gli diceva chi secondo lui avrebbe dovuto bere e quanto e il “Padrone”, giudice unico e insindacabile, decideva a suo piacimento accogliendo o rifiutando i suggerimenti arrivati. Pertanto, in relazione a chi quella sera veniva preso di mira, poteva capitare che qualcuno restasse per tutta la serata all’asciutto, all’ “ ùrm’ ”, senza bere e che a qualcun altro toccasse una quantità spropositata di vino. Era un gioco condotto sempre sul filo dell’allegria e dell’ironia, ma poteva capitare che chi trascorreva una serata senza toccare nemmeno un bicchiere di vino – in un contesto in cui il vino si offriva a tutti in segno di stima e affetto – avvertisse la situazione come un’offesa personale da parte del “Padrone”, con strascichi non sempre pacifici.
La cantina era un posto dove entravano solo i maschi adulti, come un club londinese. I ragazzi non vi erano ammessi e quando ciò avveniva significava che ormai erano considerati “uomini”.
Simpatici i soprannomi di alcuni osti, i “cantineri” rossanesi: Pepponcino, U Magaru, Guardapp, Lappone, … ed era con tali nomi che venivano individuate le osterie.
Tutto questo universo da piccolo mondo antico ormai è scomparso. Non ci sono più le cantine, non c’è più la gente nei rioni, non c’è più l’appartenenza al “vicinanzo” e al campanile, che come un filo ideale teneva insieme queste realtà. L’auspicio è che non si perda anche la socialità e lo spirito scanzonato che le osterie contribuivano ad alimentare rendendo più leggera l’esistenza di una comunità.

Foto di cantine e l’elenco di quelle di Rossano sono sul sito internet:
https://anticabibliotecacoriglianorossano.it/aree-tematiche/mestieri-professioni/osti-e-osterie/

 

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo, rossanese, vive da una vita a

Firenze. Per passione si occupa di ricerca storica

sul Risorgimento in Calabria. Nel 2012 ha pubblicato

il romanzo Le tentazioni della

politica e nel 2016 il saggio Il Brigante Palma e i misteri

del sequestro de Rosis. Nel 2017 ha fondato il sito

anticabibliotecacoriglianorossano.it. Nel 2019 ha curato la pubblicazione

dei volumetti Passo dopo passo nella Cattedrale di Rossano,

Passo dopo passo nella Chiesa di San Nilo a Rossano,

Le miniature del Codice Purpureo di Rossano.

Da fotografo dilettante cerca di cogliere

con gli scatti le mille sfaccettature del paese natio

e le sue foto sono state pubblicate nel volume di poesie

su Rossano Se chiudo gli occhi.

Una risposta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati: