Il Natale di quando eravamo povera gente, racconto di Martino A. Rizzo

Il primo giorno di dicembre era tradizione in tante famiglie di “fare i scorateddi” per dare il benvenuto al mese nel quale si celebra la nascita di Gesù e nello stesso tempo si iniziava a fantasticare su cosa organizzare per festeggiare degnamente il Natale.

Cesare Marchi, grande scrittore, giornalista e linguista, in un suo famoso libro del 1988 dal titolo “Quando eravamo povera gente” ci accompagna in un passato fatto di ricordi, riti, parole e oggetti che ormai non si usano più. Stessa cosa fece Mario Rizzo nel 1989 col suo libro “Rossano, ricordi d’altri tempi”, testo dal quale, in occasione del Natale, piace trarre le notizie su come i rossanesi nella prima metà del ‘900 vivevano la festa tra le mura domestiche, quando appunto anche loro erano “povera gente”.
Innanzitutto, per quanto riguarda i regali, tutto partiva dall’analisi dei bisogni dei componenti la famiglia circa gli indumenti che sarebbero tornati utili a ognuno. E così il ragazzo già assaporava il piacere di poter indossare un cappottino che avrebbe sostituito “u mantedduzzu”, quella mantellina grigio-verde che un tempo aveva coperto le spalle di un militare. Un altro, invece, sorrideva all’idea di poter avere un paio di scarpe nuove e buttare finalmente le stravecchie che non potevano essere ulteriormente risuolate. L’altro ancora stralunava gli occhi dalla contentezza per la promessa della madre di fargli adattare dalla sarta la giacca del fratello maggiore al quale ormai stava stretta. E probabilmente anche il papà avrebbe finalmente sostituito il pastrano con un normale cappotto! A proposito di mantellina grigio-verde e di pastrano c’è da precisare che erano indumenti che si acquistavano alle fiere ed erano ricavati dalle divise militari che i soldati restituivano una volta terminata la ferma e che poi venivano rivenduti dai mercanti.
Natale era la festa più attesa in quanto rompeva la monotonia delle fredde e piovose giornate dell’inverno. Non era la festa di un giorno, ma una festa prolungata nel tempo grazie ai preparativi con cui ogni famiglia si proponeva di celebrarla e trascorrerla. L’attesa, inoltre, era sentita perché questa solennità si celebrava dopo tanto tempo dalla festa precedente, se si considera che questa risaliva all’ormai lontano Ferragosto. Davanti al focolare o intorno al braciere la famiglia fantasticava sul pranzo di Natale. Comunque, a parte il pensiero del pranzo, bisognava innanzitutto “armaru u presebbiu”, mentre di albero di Natale ancora non si parlava. Così ai piedi di un tavolo, sistemato in un angolo della casa, si legavano lunghi rami di “russuliddi” (corbezzoli) sistemati in modo che le chiome formassero un’ampia volta sul presepe. Dai rami poi si facevano penzolare arance e mandarini mentre il piano del tavolo veniva coperto con i “panichedd” (muschio) raccolti dai ragazzi in campagna e sui quali si sistemava pure qualche pigna. In un angolo veniva collocata la grotta sulla quale si appendeva una lampadina da accendere la sera e, lasciandosi guidare dalla fantasia, tutti intorno venivano sistemati i pastori. Nella grotta prendevano posto Giuseppe e Maria, vicini a “ru vò e ru ciucciareddu”, in attesa di collocarci anche il bambinello.

Che l’evento tanto atteso fosse prossimo, in famiglia lo capivano tutti vedendo la mamma che, avvolti i capelli in un fazzoletto colorato, coperta la gonna con un candido “sinalu” (grembiale), cominciava a destreggiarsi “subbu u jestiru” (sullo spianatoio) con farina, uova, zucchero e quant’altro occorreva per poi “mintiri a fressura”, cioè mettere sul fuoco la padella con l’olio per friggere i dolciumi, insomma fare il rituale “frittu” per realizzare “crustoli”, “pasta a confetto”, “turdiddi” e altro. Nell’occasione, chiunque entrava in casa diceva “Santu Martinu”, un saluto beneaugurale, cui seguiva la risposta “bboni venutu”.

I bambini davano una mano sistemando sulla tovaglia stesa sulla tavola quanto la mamma aveva preparato. All’indomani, quando tutto era “refriddatu” (freddato), si passava all’”atturramentu”, ovvero l’arricchimento dei dolciumi con miele, zucchero, cannella, ecc. Dopo di che venivano sistemati nei vari “menzetti e mezetteddi”, recipienti di terracotta di varie dimensioni. Delle porzioni del dolciume venivano preparate anche per i parenti e gli amici intimi che erano stati colpiti da un lutto in famiglia e che perciò non “mjntjina a fressura” sul fuoco.
Arrivati finalmente alla sera del ventiquattro, i componenti della famiglia, compresi generi, nuore e nipoti, si accalcavano accanto al focolare o attorno al braciere. In attesa della cena, mentre ancora la mamma era affaccendata in cucina, tutti intonavano il tradizionale “Tu scendi dalle stelle…” e non mancava la famosa tombolata e qualche giro di “sette e mezza”. Inutile dire che della radio e della televisione, la cui diffusione cominciò negli anni Quaranta e Cinquanta, non se ne aveva nemmeno l’idea. Pur non disponendo di tali mezzi, il tempo in famiglia trascorreva comunque gioiosamente con canti, giochi e racconti vari. Non mancava talvolta di sentire davanti alla porta di casa “u cerammeddaru” che, entrato in casa, si piazzava davanti al presepe e, riempiendo di aria “l’utru” (sacco di pelle dai vari tubicini sonori sui quali si muovevano magistralmente le dita), tirava fuori dal suo antico strumento melodiosi suoni natalizi. Finalmente poi tutti prendevano posto a tavola. Come oggi la vera festa era rappresentata dalla sera del ventiquattro che coincideva con la nascita di Gesù che si festeggiava verso le ventidue, ora in cui si era ancora a tavola dato che la cena aveva una durata più lunga del solito grazie alle tante pietanze presenti quella sera. Ciò si verificava anche nelle famiglie che per difficoltà economiche erano state costrette a gonfiare “u cunti a ra potiga”. Al tradizionale piatto dei vermicelli “agghja e rogghjiu” seguivano le varie portate di baccalà in quanto la sera del Natale era considerata vigilia e quindi con l’obbligo di non mangiare carne. Tra le tante portate non mancavano quelle a base di pesce, anche se la pesca locale – specie se imperversava la tramontana – non riusciva a soddisfare le richieste di tutti. Inutile dire che del surgelato non se ne aveva neppure l’idea. Arricchivano la tavola le frittelle di zucca, di cavolfiore e delle altre verdure di stagione e olive e formaggi, cui seguiva come frutta “a paddotta vernile”, i “fichi mpurnatu e cruccetti”, le noci e, per chi ne disponeva, qualche “piru e pumi stipatizzu”.

Nel frattempo si stava con l’orecchio teso ad attendere che “sparassa a gloria” per annunciare la nascita di Gesù, cioè che le campane si sciogliessero a gloria. A Rossano Scalo, poiché non c’erano chiese, a dare l’annunzio della nascita di Gesù era “u cornu e Ravetta”, il suono della sirena della centrale termica in funzione a Sant’Angelo. Era quello un momento di grande giubilo, atteso e salutato con schioppettate dei fucili da caccia e successivamente, verso gli anni Cinquanta, con “surfareddi e vattamuri”. Dopo lo scambio degli auguri, tutta la famiglia formava un minuscolo corteo con a capo il più piccolo dei figlioli, o un nipotino, che con le spalle coperte da un candido asciugamano andava a deporre “u Bbommineddu ntra rutta” del presepe, dinanzi al quale ancora una volta si intonava “Tu scendi dalle stelle…”.

A quel punto finalmente veniva portato sulla tavola il tanto atteso “frittu” che inondava la casa col profumo di cannella e garofano di cui era cosparso. Accompagnavano il “frittu” i torroncini della premiata “Ditta Bianco & De Florio”. La cena veniva innaffiata da un ottimo vino paesano mentre per “u frittu e i turruni” si apriva una bottiglia di vermouth. Solo verso gli anni Cinquanta lo spumante ed il panettone entrarono in quasi tutte le case.

Quella notte era la sola nella quale si poteva apprendere, da chi la conosceva, la formula magica e segreta con cui togliere “u picciu” (l’affascino). Così con l’ottima cena, il gusto dei dolci, quattro salti al suono di un grammofono a tromba e una leggera sbronza le ore trascorrevano lietamente. Appena i bambini cominciavano a sonnecchiare gli ospiti si congedavano e la famiglia un po’ alla volta andava ad infilarsi nei freddi letti. Solo la mamma ancora si attardava per “azara a cucina”, sistemare la cucina in modo che l’indomani potesse più facilmente preparare il pranzo natalizio. Ma la tavola restava comunque “parata” (apparecchiata) perché durante la notte “l’agureddu” (il folletto), segno di buon augurio, potesse aggirarvisi e soddisfarsi. Il mattino del giorno di Natale la mamma si alzava di buon’ora per recarsi in chiesa e partecipare alla Santa Messa dell’alba in modo da avere poi più tempo a disposizione per gli impegni che l’aspettavano in cucina. Il pranzo era molto atteso dai ragazzi che, avendo da tanto tempo preparato a scuola la “letterina”, in questa occasione la posizionavano sotto il piatto del babbo. Lui la leggeva e, poiché la letterina concludeva sempre con la promessa di essere buoni nel corso di tutto l’anno e la richiesta della santa benedizione, il papà ringraziava per la promessa ricevuta e impartiva la benedizione. Ma ai ragazzi non bastava e così mettevano il broncio fino a che il babbo, infilate le dita nel taschino del gilet, prendeva dei soldini con i quali distribuiva la tanto attesa strenna che aveva il potere di far ritornare i sorrisi su quei volti che prima si erano rabbuiati.

Con l’occasione, formulo i migliori auguri di BUON NATALE a tutti i lettori che hanno la pazienza di leggere i miei articoli. Questo articolo è stato redatto sulla base di una libera ricostruzione del capitolo “Il Natale” dal libro di Mario Rizzo, “Rossano, ricordi d’altri tempi”, Edizione MIT, Cosenza 1989.

Martino A. Rizzo

 

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo, rossanese, vive da una vita a

Firenze. Per passione si occupa di ricerca storica

sul Risorgimento in Calabria. Nel 2012 ha pubblicato

il romanzo Le tentazioni della

politica e nel 2016 il saggio Il Brigante Palma e i misteri

del sequestro de Rosis. Nel 2017 ha fondato il sito

anticabibliotecacoriglianorossano.it. Nel 2019 ha curato la pubblicazione

dei volumetti Passo dopo passo nella Cattedrale di Rossano,

Passo dopo passo nella Chiesa di San Nilo a Rossano,

Le miniature del Codice Purpureo di Rossano.

Da fotografo dilettante cerca di cogliere

con gli scatti le mille sfaccettature del paese natio

e le sue foto sono state pubblicate nel volume di poesie

su Rossano Se chiudo gli occhi.

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