Il Crati continua a far paura

parco sibari

di ROSSELLA MOLINARI

parco_sibari_1Sono trascorsi più di tre anni da quel 18 gennaio del 2013 quando, con il Crati in piena, crollò un tratto dell’argine che determinò l’inondazione del Parco Archeologico di Sibari. Una valanga di acqua e fango ‒ se ne calcolarono circa 200mila metri cubi ‒ che sommerse gli scavi, coprendo nel giro di qualche ora millenni di storia. Oggi il parco è in parte riemerso, una nuova zona è stata nel frattempo scavata e il cantiere è pienamente operativo. Ma, a distanza di tre anni, si può affermare che il pericolo sia scampato? Si può dire che i resti di Sybaris, Thurii e Copia siano al sicuro? Be’, qualcosa è stata fatta in termini di interventi strutturali, ma ancora resta una vasta area sulla quale intervenire e che, solo in parte, è stata inserita in una apposita programmazione. Nessun intervento programmato, ad esempio, sulla zona a valle, ovvero tra la statale 106 e il mare, verso la foce del Crati, dove appunto insiste un cantiere di scavi in atto. E ogni volta che il Crati si ingrossa, torna la paura. Ma facciamo un passo indietro, tornando ai momenti immediatamente successivi a quel drammatico 18 gennaio di tre anni fa. Sin da subito, ci si mise al lavoro, grazie anche al supporto dei Vigili del fuoco, del personale dell’Ente Provincia e del Consorzio di bonifica, per aspirare l’acqua e iniziare a togliere il fango. Ma bisognava intervenire a livello strutturale, per mettere in sicurezza gli argini, sia dal lato di Cassano sia dal lato di Corigliano. Tra l’altro, già qualche anno prima, un ulteriore tratto di argine, in una zona più a monte, aveva ceduto determinando danni materiali nell’area di contrada Lattughelle. Danni ad oggi non ancora risarciti. In seguito all’alluvione del 2013, emerse anche la problematica relativa alla presenza di svariati ettari di agrumeti nella golena (la zona accanto al letto) del fiume Crati, mentre venne aperta un’inchiesta dalla Procura della Repubblica di Castrovillari tesa ad appurare eventuali responsabilità per quanto accaduto. Tra le varie ipotesi sulle cause che avrebbero potuto determinare l’indebolimento degli argini, fu avanzata quella relativa alla presenza di nutrie che, scavando le proprie tane, avrebbero in parte minato la struttura. Vi è poi da sottolineare la massiccia quantità di detriti e inerti depositati, e negli anni sedimentati, che hanno innalzato il livello del letto del fiume. Il che rende ancora più facile il verificarsi di una esondazione. A prescindere dalle cause, si passò agli interventi di ingegneria idraulica per il rafforzamento degli argini. A Cassano venne anche l’allora ministro Barca il quale istituì un tavolo presso la Prefettura di Cosenza per l’accertamento di quanto accaduto e il ripristino dello stato dei luoghi. Successivamente, la Calabria venne commissariata per il rischio idrogeologico e il commissario Domenico Percolla fu in più occasioni al centro di svariate polemiche in seguito allo stallo che si era venuto a creare. La situazione si sbloccò con la nomina di un soggetto attuatore ‒ indicato dal presidente della regione Calabria Mario Oliverio che nel frattempo era diventato commissario ‒ nella persona dell’ingegnere Nello Gallo, il quale riuscì a portare a termine alcuni degli interventi. Anche la Provincia di Cosenza fece la sua parte, con un investimento iniziale sia per tamponare la falla sia per sistemare un tratto degli argini. L’ex sindaco Gianni Papasso, che insisteva anche per l’eradicamento degli agrumeti sul letto del fiume, sollecitò il soggetto attuatore ad utilizzare il ribasso d’asta per consentire la prosecuzione degli interventi nella zona più a monte, dove il Coscile confluisce nel Crati. Richiesta che oggi è in fase di progettazione per l’affidamento dei lavori tramite gara. Se la parte più consistente finora è stata messa in sicurezza, restano ancora “vulnerabili” la zona a monte e quella a valle. Ed è proprio qui che la campagna di scavi sta riportando alla luce nuovi tesori. Si sarà in grado di proteggerli?

di SAMANTHA TARANTINO

Sibari. Dal 510 a.C. ad oggi, il suo destino è legato all’acqua
La storia di Sibari è stata sommersa dall’acqua, come dalla mano dell’uomo. Il 510 a.C. l’acerrima nemica Crotone, dopo l’assedio, la costrinse alla resa, facendo deviare il corso del Crati affinché di questa non rimanesse alcuna traccia. Nel corso del tempo, il Crati ha ricoperto più volte la grande Sibari.
Chi non ricorda le immagini dell’inondazione del 2013, che aveva completamente ricoperto d’acqua il Parco del Cavallo, quello Stombi o dei Tori, l’area Oasi di Casa Bianca, le fontane monumentali, l’anfiteatro di cui rimanevano i resti dell’orchestra e della cavea e l’impianto termale del I secolo d.C.
All’epoca, intervennero le idrovore dei Vigili del fuoco, della Protezione civile calabrese e dei tecnici del Consorzio di bonifica dei bacini dello Jonio Cosentino, che ingoiarono 18mila metri cubi d’acqua al minuto.
La messa in sicurezza del parco archeologico di Sibari è da sempre un cruccio non solo delle amministrazioni di competenza, ma dell’intero territorio. Ci sono voluti quasi due anni per affidare i lavori di messa in sicurezza del fiume Crati, nell’ottobre del 2014. Un importo di circa quattro milioni d’euro, finalizzati a rafforzare le arginature attraverso delle reti speciali. Con l’alluvione del gennaio 2013, infatti, gli argini avevano ceduto sia perché costruiti male e realizzati con materiali assai scadenti, sia perché su di essi non vi era stata alcuna opera di manutenzione da molti anni. Gli interventi attuali sul fiume Crati, post alluvione del 12 agosto del 2015 e dopo l’ultimissima esondazione nella zona di Piano Scafo (Cassano), sono riusciti ad arginare la forza dell’acqua. Intanto, le esondazioni hanno restituito reperti al momento recuperati e in corso di studio. Sibari è una miniera a cielo aperto in continua evoluzione.

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