I retroscena dell’inchiesta sul caporalato: in un giorno una delle vittime caricò 630 cassette di pomodori

Linguaggio e condotte usate tipiche di chi adotta comportamenti da “caporale”. Dall’inchiesta portata a termine dai carabinieri sotto il coordinamento della Procura di Castrovillari emerge uno spaccato inquietante. Dai narrati si riscontrano le ipotesi di sfruttamento poste in essere dagli indiziati finiti nella rete dell’intelligence cosentina. Lavoro nero e sottopagato, in alcuni casi spuntano persino minacce di morte. Circa 400 pagine di fascicoli, tra denunce, escussioni, verbali, dichiarazioni rese dalle vittime, intercettazioni, captazioni ambientali, controlli incrociati di tabulati. Tra le vittime uomini e donne di origine pakistana, rumeni, ucraini, bulgari, bengalesi. L’inchiesta trae origine da una serie di denunce-querele presentate da presunte vittime nei confronti dei caporali presso la stazione dei carabinieri di Crosia. Poi a cascata, l’indagine si allarga nel crotonese, nella città di Corigliano Rossano, nel cassanese, nel cirotano e materano, in Sila. L’arco di tempo tenuto sotto osservazione va dal 2018 al 2021. Dalle 10 alle 12 ore di lavoro consecutive con un margine di riposo tra i 10 e i 30 minuti. Le tariffe oscillavano, ma in prevalenza veniva riconosciuto 1 euro a cassetta di frutta. Il pagamento avveniva ogni lunedì o tramite bonifico postpay  o in contanti. Alcuni riferiscono di non avere mai avuto una busta paga.

La comparsa di espressioni fuori dalla civiltà denotano la cornice entro cui si operava. «Io sono il padrone, voi dovete fare quello che dico io”, e tutto questo seguite da minacce di licenziamento. Rigido il regime di sorveglianza e laddove le vittime si dimostravano lente veniva intimato di sbrigarsi. In un caso, una delle testimonianze raccolte dagli investigatori riporta un dato raccapricciante: un extracomunitario in un solo giorno dovette caricare ben 630 cassette di pomodori. Di seguito avvertì dolori in tutte le parti del corpo, ma non fu né medicato né curato. Si lavorava tutti i giorni domeniche comprese.  Insulti, minacce erano all’ordine del giorno con espressioni del tipo “Testa di c…, testa di m…domani non ti porto a lavorare”, nella consapevolezza che ad alcune delle vittime serviva lavorare per ottenere il permesso di soggiorno. In qualche caso si è trascesi alle minacce di morte richiamando l’uso di una pistola, qualora qualcuno si fosse permesso di rivolgersi ai carabinieri. La sofferenza della sopraffazione si toccava con mano, ma anche il linguaggio usato non dava adito ad interpretazioni.  Qualcuno racconta «quando avevamo fame dovevamo chiedergli il permesso di mangiare un panino o bere un po’ d’acqua, ed alcune volte non ce lo permettevano».

 

 

 

 

 

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