I media come filtri in ambito sanitario, una ricerca dell’Unical

Dall’11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a seguito dell’incremento esponenziale dei casi di contagio da Covid-19 in diversi Paesi, decide di valutarne lo sviluppo come pandemico.

Telegiornali, trasmissioni televisive di attualità e di cronaca, giornali, radio, web e social networks hanno dedicato sempre maggiore attenzione al tema. Si è trattato, però, di una comunicazione efficace?

Senza entrare troppo nel dettaglio, in ambito linguistico, la comunicazione è intesa come il passaggio di informazione da un emittente ad un destinatario che, grazie alle sue competenze, decodifica (comprende) il messaggio. Una comunicazione ben riuscita è quella che rispetta le quattro massime griceane (quantità, qualità, relazione e modalità): si deve fornire un’informazione che sia quantitativamente necessaria, veritiera, pertinente e non ambigua.

I mass media (dal latino pl. di medium=mezzo) rappresentano, quindi, dei mezzi per comunicare, per informare la collettività su ciò che accade. Di fatti, si assiste, a distanza di un anno, quotidianamente al bilancio e all’andamento dei nuovi contagi, dei guariti e dei decessi. Si è data larga diffusione anche ad espressioni nuove come indice RT, lockdown, distanziamento sociale, soggetto paucisintomatico, contact tracing, droplets e infodemia.

Quest’ultima è intesa come la circolazione di eccessive informazioni, spesso non vagliate con accuratezza, che ha come controparte la difficoltà di orientarsi su un determinato argomento perché diventa problematico trovare fonti affidabili. Non è un caso che il Direttore Generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nella Security Conference di Monaco il 15 febbraio 2020, utilizzava tale termine asserendo che non si stava solo combattendo una pandemia; ma anche l’infodemia.

Si comprende, quindi, come la pandemia di Covid-19, abbia posto le basi per una riflessione sul problema della comunicazione in ambito scientifico e sanitario.

La rapidità con cui vengono diffuse le notizie dà modo di confrontarsi con le competenze necessarie a comprenderle, quelle relative alla health literacy (alfabetizzazione sanitaria).

Secondo delle indagini svolte a livello europeo, nel vecchio continente più della metà della popolazione adulta dichiara di avere delle conoscenze scarse per riuscire ad informarsi in modo appropriato e consapevole. In Italia, solo il 23% della popolazione dichiara di capire pienamente la terminologia impiegata per spiegare un tema di salute approfondito su internet e solo il 25% ritiene di essere in grado di distinguere le informazioni di alta qualità da quelle di bassa qualità presenti sul web.

Alla bassa e poco adeguata alfabetizzazione sanitaria bisogna aggiungere il problema della disinformazione al quale concorrono due elementi principali: alla velocità della trasmissione delle notizie sopra accennata si affianca il fenomeno noto come echo chamber. Gli algoritmi dei social networks, tra cui Facebook e Twitter, funzionano, infatti, da “casse risonanti” per cui, una volta che un post viene commentato, condiviso, ritwittato o anche solo se si esprime approvazione attraverso il tasto “mi piace”, nella Home appariranno post e articoli di contenuto simile.

Il web è pieno di notizie, anche in campo scientifico, di cui non sono state verificate né affidabilità né veridicità e che, però, trovano riscontro nell’utenza media. La ragione principale della proliferazione di fake news è anche economica. Si è diffuso nel campo dell’informazione, oltre che nell’ambito della pubblicità, il fenomeno del clickbaiting: i vari siti e giornali lo sfruttano per attrarre una larga parte della popolazione. In generale, il titolo e la spalla hanno lo scopo di attirare e, spesso, indignare: che la notizia in sé sia inventata o si discosti da quanto millantato dal titolo non importa.

Il problema in ambito sanitario diventa, però, molto serio: lo “tsunami comunicativo”, creato dai mass media, sposta l’attenzione su un singolo problema di salute (come, ad esempio, anche in passato è stato per l’HIV, la SARS, l’influenza aviaria) riportando titoli sensazionalistici piuttosto che messaggi scientifici con parole adatte al contesto e determinando una sfiducia nella scienza da parte di un pubblico sempre più ampio. Di conseguenza, diventa necessario non tanto che la gente sia informata quanto che lo sia in modo appropriato.

Basti ricordare la viralità di diverse fake news che hanno avuto un seguito in Italia durante il primo lockdown: tra questi, i trattamenti alternativi alla medicina tradizionale come il fare gargarismi con la candeggina; bere bevande calde per uccidere il virus o, ancora, bere alcolici per prevenire la Covid-19 dato che il virus è sensibile all’alcol.

Tale contributo nasce, invece, come conseguenza dell’ambigua e contraddittoria campagna di informazione riguardante il vaccino anglo-svedese Astrazeneca rispetto agli altri disponibili (Pfizer e Moderna) che ha finito per comprometterne la credibilità e la fiducia da parte della popolazione. Il tema dei vaccini è piuttosto complesso, considerato che già da anni ci sono reticenze, complice uno studio inglese smentito da più evidenze scientifiche, anche sul modo di divulgare contenuti scientifici da parte delle autorità preposte.

Nel caso specifico, si sono susseguiti, a distanza di pochi giorni, titoli sensazionalistici. Giusto per citarne due: “AstraZeneca, paura in Europa” seguito da un “Il vaccino AstraZeneca è sicuro”, entrambi pubblicati in prima pagina su La Repubblica, rispettivamente il 12 e il 13 marzo 2021. D’altra parte, anche le istituzioni di riferimento hanno dimostrato un fallimento nella comunicazione. Il 14 marzo 2021, l’Aifa ha sostenuto l’«ingiustificato allarme sulla sicurezza del vaccino AstraZeneca» per poi fare un passo indietro il giorno successivo. Il 15 marzo, infatti, dopo casi di rare forme di trombosi cerebrale che nella popolazione giovane sembrerebbero presentarsi in una percentuale maggiore del previsto ha «deciso di estendere in via del tutto precauzionale e temporanea, in attesa dei pronunciamenti dell’EMA, il divieto di utilizzo del vaccino AstraZeneca su tutto il territorio nazionale», in linea con quanto fatto da Germania, Francia, Spagna e Olanda. Accanto a questo, la revisione continua sulle fasce d’età per cui tale vaccino è stato raccomandato. Nonostante l’EMA lo abbia approvato dai 18 anni in su, in Italia si è optato inizialmente per la sua somministrazione fino ai 55 anni (3 febbraio 2021), successivamente fino ai 65 (23 febbraio 2021). Dal 7 aprile 2021, l’Aifa lo raccomanda ai cittadini over 60 ma, non lo vieta nelle fasce d’età inferiori (4 maggio 2021). A ciò si aggiunge, il 9 maggio, la scelta di interrompere il contratto con Astrazeneca per motivi economici e logistici (ritardi nelle consegne) che nulla hanno a che vedere con l’efficacia del vaccino ma dai vari media istituzionali e non, il titolo ricorrente è “L’UE non rinnova il contratto con Astrazeneca”, oppure “Stop Astrazeneca, l’UE non rinnova il contratto” senza soffermarsi più di tanto sul motivo reale del mancato rinnovo e lasciando intendere un blocco del vaccino (quando, invece, le forniture saranno garantite per tutto il 2021).

È chiaro che tutto ciò ha avuto un impatto psicologico molto forte che ha influenzato la nostra percezione del rischio. Per cui, la domanda che sorge spontanea è: qual era l’obiettivo di tali titoli? Quanto i mass media sono diventati “social” alla ricerca di likes e condivisioni, perdendo di vista l’obiettivo primario dell’informazione corretta e appropriata al contesto?

Forse, sarebbe bene che la comunicazione in ambito sanitario, considerata l’importanza delle questioni trattate, sfruttasse i “media” nell’accezione latina di centro, via di mezzo: cioè, i filtri della veridicità delle fonti tra chi produce l’informazione e chi deve riceverla. Questo tipo di revisione, che sui social manca, favorisce il proliferare di notizie parzialmente esatte e di fake news.

Ecco, dunque, che in tale situazione l’alfabetizzazione sanitaria diventa necessaria poiché è proprio grazie alla capacità di comprendere questioni relative al mondo scientifico-sanitario che si possono valutare in modo critico le informazioni disponibili. L’health literacy non dovrà, quindi, servire per “educare” la gente a cosa è giusto o sbagliato fare a tutela della propria salute. Piuttosto dovrà darle gli strumenti adatti per permetterle di scegliere l’alternativa migliore in tema di salute, quando il contesto o un preciso momento della propria vita lo richiede.

Senza entrare troppo nel dettaglio, in ambito linguistico, la comunicazione è intesa come il passaggio di informazione da un emittente a un destinatario che, grazie alle sue competenze, decodifica (comprende) il messaggio. Una comunicazione ben riuscita – sostengono la dott.ssa Graziano e il Prof. Romito dell’Università della Calabria – è quella che rispetta le quattro massime griceane (quantità, qualità, relazione e modalità): si deve fornire un’informazione che sia quantitativamente necessaria, veritiera, pertinente e non ambigua.
 Forse, sarebbe bene che la comunicazione in ambito sanitario, considerata l’importanza delle questioni trattate, sfruttasse i media nell’accezione latina di centro, via di mezzo: cioè, come filtri della veridicità delle fonti tra chi produce l’informazione e chi deve riceverla.

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