Feudalesimo e servilismo a Rossano tra ‘800 e ‘900. Racconto di Martino A. Rizzo

Il feudalesimo che vigeva nel Regno delle Due Sicilie formalmente fu abolito dai francesi nei primi anni dell’800, ma – anche se ufficialmente soppresso – ha continuato a vivere tra la popolazione come forma mentis, stratificatasi col tempo e difficile da modificare; così i ceti sociali umili ritenevano naturale adottare nei confronti dei nobili, dei ricchi e dei potenti un atteggiamento di soggezione sia culturale che comportamentale.

Comunque, senza addentrarsi in discussioni troppo sofisticate, piace qui riportare alcune testimonianze che comprovano come il servilismo nei rapporti sociali, abbia albergato nelle nostre contrade fino a qualche decennio fa.
Nel giro delle testimonianze non si può non iniziare con quella di Vincenzo Padula. Lo scrittore di Acri, su “Il Bruzio” del 5 marzo 1864, si chiede in modo ironico di “quante volte percorrendo i vari paesi di questa Calabria, che ci è tanto cara, non ci siamo vergognati di essere Calabresi! Quante volte non abbiamo dubitato dell’esistenza dell’anima in un popolo, che dividendosi in due ali mute, ritte ed immobili come se sopra gli fossero scoppiati mille fulmini diceva: Passa lui, passa il padrone, e gli si curvava d’innanzi come avesse voluto dirgli: Signore, fateci l’onore di darne un calcio al deretano!”. Perché “Siffatta servilità non fu altrove sì grande e sì abbietta come nella nostra provincia”.

Enea Pasolini, ufficiale dell’esercito di stanza a Rossano, figlio del conte Giuseppe Pasolini di Imola, raccontò che il 27 giugno 1868, mentre attraversava le strade del paese per scortare la principessa Labonia ebbe dimostrazione di “quanto le grandi famiglie di qui hanno del feudale, del medio evo. I saluti di tutte le famiglie minori questa mane erano infiniti. Se la principessa si fosse lasciata baciare la mano da tutti quelli che lo volevano fare, credo che gliela avrebbero consumata come il piede di S. Pietro in Vaticano.”

Queste consuetudini non erano confinate all’800. Mario Rizzo – a distanza di quasi un secolo dal racconto di Pasolini – nel suo libro “Rossano, ricordi di altri tempi”, parla di “quando ‘i signurini’ attraversavano le strade del paese ‘i plebei’ incontrandoli si mettevano da parte inchinandosi dopo essersi doverosamente tolti dalla testa ‘a coppula’ o ‘u cappeddu’”.
“Rossano – aggiunge Marco De Simone in un’intervista del 1991– si presentava come un paese con una forte presenza di grandi proprietari terrieri per lo più baroni, marchesi, con conseguenti disparità sociali”.


Tale suddivisione della società in classi sociali è confermata dai ricordi di Ignazio Pisani che nell’agosto del 1933 appunta nei suoi diari, dall’alto del suo rango, che “a S. Angelo vi è grande affluenza di bagnanti nobili, borghesi e plebei”.
Continua sempre Rizzo: “Nell’allora cinema Nazionale, se affollato, ‘u signurinu’ non restava mai in piedi poiché ad alzarsi per cedergli il posto si faceva, direi, a gara per ben figurare”, e “non credo di esagerare nel dire che a Rossano quasi fino alla fine degli anni Quaranta si è vissuta una vita che sapeva ancora tanto di feudalesimo. A testimonianza di tanto citerò pochissimi esempi di vita vissuta fino a pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, tempi in cui tanta era la differenza tra ‘u signurinu’ (il nobile) e ‘ru tamarru’ (il villano), facenti parte di due classi sociali diametralmente opposte. Non potrò mai dimenticare che là dove c’era ‘u signurinu’, ad esempio nel caffé, ‘u tamarru’ non entrava se non quando quello era uscito o vi entrava ‘e ranta e ranta”’ (strisciante lungo la parete per non dar fastidio)”.
Le cose non cambiavano in chiesa. “Nella cattedrale persino i posti erano rigidamente assegnati, divisi come erano in settori transennati: nel primo settore gli aristocratici, nel secondo i borghesi e i professionisti ecc… e nell’ultimo settore, infine, i contadini, i braccianti, la gente più umile”, dice Marco De Simone nell’intervista già citata.
Arricchisce la descrizione Mario Rizzo: “alla messa domenicale di mezzogiorno che il prete che la celebrava, Sac. Cirullo, faceva durare esattamente dalle 11,30 a mezzogiorno in punto e alla quale partecipava una certa élite, per cui non era mai affollata, il sagrestano del tempo, ‘U scioddatu’, predisponeva ‘ppe ri signurini’, un po’ in disparte da tutti, due file di sedie: una per sedere e l’altra per poggiarvi i piedi”.
Non era diversa la condizione nelle campagne dove “u signurino” stava in una specie di castello su un’altura mentre in basso, in casupole con grandi cameroni, viveva in promiscuità la servitù e le raccoglitrici d’olive che dovevano sottostare a condizioni morali, e abusi, che – a detta di don Ciccio Godino – è meglio limitarsi a “prevedere e non descrivere”.

Padula, Pasolini, Rizzo, De Simone, Godino, cinque testimonianze dallo stesso tenore che abbracciano circa un secolo di vita rossanese e che non lasciano adito a dubbi, rappresentando così, con alta attendibilità, una situazione di pecoraggine che ha resistito nel tempo. E oggi? Ci sono ancora novelli “signurini”? Se sì, chi sono? Ai lettori l’ardua risposta.

Martino A. Rizzo

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo, rossanese, vive da una vita a

Firenze. Per passione si occupa di ricerca storica

sul Risorgimento in Calabria. Nel 2012 ha pubblicato

il romanzo Le tentazioni della

politica e nel 2016 il saggio Il Brigante Palma e i misteri

del sequestro de Rosis. Nel 2017 ha fondato il sito

anticabibliotecacoriglianorossano.it. Nel 2019 ha curato la pubblicazione

dei volumetti Passo dopo passo nella Cattedrale di Rossano,

Passo dopo passo nella Chiesa di San Nilo a Rossano,

Le miniature del Codice Purpureo di Rossano.

Da fotografo dilettante cerca di cogliere

con gli scatti le mille sfaccettature del paese natio

e le sue foto sono state pubblicate nel volume di poesie

su Rossano Se chiudo gli occhi.

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