Editoriale. Responsabilità al Tempo del Coronavirus di Domenico Mazzullo

Responsabilità al Tempo del Coronavirus+
https://youtu.be/VluxUjVSMW0
Responsabilità, un termine che mi ha sempre affascinato, da quando ero bambino e di cui ho compreso molto presto il significato, quando bambino venivo lasciato da mio padre, impegnato in altre occupazioni al cinema e spesso, con mia soddisfazione vedevo lo stesso film due o tre volte di seguito fino a che non venivo recuperato e i concetti in esso film rappresentati si inculcavano bene nella mia mente infantile, ansiosa di capire.
Per fortuna i film di quel tempo erano diversi da quelli di oggi e, che fossero sulla Seconda Guerra Mondiale, da poco trascorsa e ancora molto fresca nella memoria, o Western americani, gli italiani erano ancora lontani, i concetti in essi contenuti erano molto chiari e facilmente cogliibili, anche da parte di una mente infantile e ingenua, nonché poco dotata come la mia, ma la ripetizione di essi aiutava la comprensione.


Essi erano semplici e diretti: I Tedeschi o i Giapponesi erano cattivi, gli Americani buoni. Gli Indiani cattivi, i Bianchi buoni oppure, cambiando epoca e continente, i Moschettieri del Re buoni, Le Guardie del Cardinale cattive.
Ma quei film parlavano, a me ingenuo, anche di onore, di senso del dovere, di rispetto, di fedeltà, di coraggio, di solidarietà, di responsabilità, concetti difficili da spiegare a parole, ma chiarissimi negli esempi didascalici che offrivano, basti pensare a “Un dollaro d’onore”, “Ombre rosse”, “Mezzogiorno di fuoco” Ivanhoe, “I Cavalieri della Tavola Rotonda .
Gli stessi concetti che ritrovavo a scuola, quando il Maestro ci leggeva in classe il “Libro Cuore” di De Amicis o “I Ragazzi della via Pal” di Molnar, o “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, o ci raccontava di Ciro Menotti, di Cesare Battisti, di Enrico Toti.
Concetti chiari, semplici, elementari, come eravamo noi bambini, ma che rimanevano stampati nella nostra mente, nel nostro cuore, nel nostro immaginario e ai quali ci ispiravamo anche nei nostri giochi infantili.
Quando siamo diventati più adulti e più critici, siamo diventati anche capaci di fare dei distinguo, di non dividere più tutto in bianco e nero, ma quei concetti sono rimasti ben saldi entro di noi e hanno rappresentato e rappresentano delle “bussole interiori” che ci permettono di orientarci nella vita e di informare, illuminare il nostro comportamento.
Certamente non mi illudo che siamo tutti così buoni e così bravi, così ossequienti nei confronti di quei principi, ma almeno è rimasto entro di noi, quel sottile malessere, persistente, inquietante che ci tormenta quando, per debolezza, ci allontaniamo da quei principi.
Uno di essi è a me particolarmente caro e non saprei vivere senza di esso.
E’ una parola semplice, quasi umile nella Sua semplicità, eppure tanto importante soprattutto in questo momento, in momenti di crisi, di emergenza, di allarme: Responsabilità.
“Responsabilità”, recita il dizionario: “Consapevolezza delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano”.
Definizione semplice, elementare, perfettamente comprensibile da tutti, immediata, vorrei dire, eppure così gravosa, così impegnativa, così pesante, così ardua, così difficile, tanto da essere spesso rifiutata, negata, misconosciuta ignorata, calpestata.
Non sono niente e nessuno per affermarlo, eppure sono convinto che senza Responsabilità, non possiamo autodefinirci Umani.
In questi momenti, in questi giorni, ieri sabato, di Responsabilità, purtroppo, ne abbiamo vista molto poca, nel nostro Paese, negli altri non so, e soprattutto, ahimè, da parte di quella fascia della popolazione che maggiormente ne avrebbe dovuta mostrare, perché proprio quella fascia di popolazione rappresenta il nostro futuro, il nostro avvenire, il nostro “dopo di noi”, che siamo diventati grandi.
Le immagini di ragazzi, di giovani e anche meno giovani, con barba e baffi, con il bicchiere di vino in mano, o la bottiglia di birra, ma senza la fatidica mascherina, che, a contatto gli uni con gli altri, o a distanza ravvicinata, si ammucchiavano, si ammassavano, si abbracciavano tra loro, in tutte le città di Italia, al Nord e al Sud, nei luoghi della cosiddetta “Movida” incuranti delle norme di precauzione che ormai tutti conosciamo a memoria e che dovrebbero proteggere noi e gli altri dal diffondersi della epidemia, mi hanno fatto inorridire e gettato nella più profonda desolazione e sconforto.
E’ mai possibile, mi chiedo con animo dubitativo, che non ci si renda conto che non è stato un gioco, che non è un gioco, che ancora non è finito, che ci sono stati migliaia di morti e ancora ce ne saranno, che ancora sono fisse nei nostri occhi le immagini drammatiche dei camion militari verdi che portano via le bare, delle fosse comuni negli Stati Uniti, dei medici e degli infermieri con gli scafandri protettivi nelle sale di rianimazione degli ospedali al capezzale dei pazienti?
Tutto ciò non li riguarda? Non è affar loro? Non si rendono conto che così facendo mettono a rischio la vita loro e degli altri? Non provano un senso, seppur minimo di responsabilità?
E’ tremendamente inquietante l’immagine delle Forze dell’Ordine che presidiano i luoghi della “Movida”.

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