Editoriale. Della libertà di stampa non frega niente a nessuno

 

Della libertà di stampa non gliene frega niente a nessuno, ad eccezione di quando ci si sbatte il muso. È ormai una certezza, fa parte dell’indole umana occuparsi delle questioni solo quando si è toccati direttamente. Siamo un popolo irresponsabile, immaturo e, soprattutto, senza spina dorsale. Diceva bene Vladimir Luxuria in una recente trasmissione in tema di social piuttosto critica: “Se salvi un gatto da un’auto che rischia di ucciderlo diranno che lo vuoi arrostire per mangiarlo”. Bravi dunque dietro una tastiera a sbraitare, molto meno ad agire ed essere conseguenziali. È necessaria questa premessa, forse aspra, ma che rappresenta la mia verità, per riproporre la questione della libera informazione ai vari livelli. In questi giorni abbiamo voluto affrontare il tema come testata giornalistica in maniera propositiva, guardando la realtà in faccia e partendo da una analisi concreta. Abbiamo voluto riprendere la questione ritenendo necessaria una battaglia che riguardasse tutti, in primo luogo i cittadini, poi i giornalisti. Il nodo cruciale è abbattere gli elementi di ricattabilità. Che sono tanti e difficili da rimuovere. Abbiamo affrontato il tema senza sconti, andando fino in fondo pur ammettendo un qualche imbarazzo. Interviste e servizi canalizzati sulla rete in maniera invasiva: siti, blog, twitter, telegram, facebook, e chi più ne ha più ne metta. Risultato? Livello di partecipazione quasi nullo, qualche singolo “mi piace” e visualizzazioni dai dati piuttosto contenuti.

Per inchieste e notizie meno importanti si sono raggiunte punte da capogiro per argomenti talmente futili che non cito per delicatezza nei confronti dei protagonisti. Eppure non credo che il tema della libertà di stampa sia di secondo ordine. Anzi. Quante volte si leggono commenti contro questa categoria? Giornalisti asserviti al potere di turno, venduti, prezzolati, etc etc. Accuse forti, in alcuni casi vere, ma che a mio parere manifestano un atteggiamento di pura e manifesta viltà. Sappiamo in Italia come funziona il servizio pubblico da noi tutti sovvenzionato mediante il canone Rai e mai e poi mai vedremo un’inchiesta dei giornalisti Rai protesa a fare piena luce su un governo “pro tempore”, non perché non ne siano capaci, ma perché vittime dello strapotere della politica che vive di spartizioni e di lottizzazioni. In quel momento per il giornalista Rai si tratta di custodire il proprio posto di lavoro e la sua carriera, e se non ti allinei sei fuori. Questa è l’amara e tragica realtà, su cui volgiamo lo sguardo altrove come gli struzzi. Idem nel privato, La7 o reti Mediaset, nessuno dei giornalisti in quota a queste testate si sognerà mai di andare contro gli interessi dei loro editori, loro datori di lavoro, perché nel giro di pochi minuti sarebbero tolti a calci. Tale modello si può calare in tutte le realtà nazionali e periferiche. In Calabria non solo si ricalca lo stesso stile ma in alcuni casi è anche peggio poiché la crisi economica è maggiore e gli elementi di ricattabilità aumentano. Editori con interessi in altri settori non possono garantire né autonomia né indipendenza ai propri dipendenti. Però si chiede ai giornalisti il coraggio dello strappo, altrimenti si è collusi, corrotti, servi: o si violano le norme sulla stampa o la deontologia. Quanta ipocrisia! Chi si metterebbe mai contro il proprio datore di lavoro in una società povera e senza alternative? Personalmente mi è capitato di dimettermi perché in contrasto con la linea editoriale, ma dietro quella porta vi erano almeno altri 10 colleghi ad attendere. Quindi le forme di eroismo solitario non portano da nessuna parte. Come uscirne?  La soluzione c’è, ma deve vedere tutti i cittadini protagonisti e la categoria compatta, altrimenti sarà dura renderla fattiva. Si tratta di avanzare una proposta di legge che contenga poste di finanziamento, in via esclusiva (altrimenti editori impuri assorbono i capitoli di investimento), a soggetti giuridici composti da giornalisti, teleoperatori, poligrafici, amministrativi, con priorità a chi vive in stato di disoccupazione o inoccupazione. È anche un modo per dare una prima risposta concreta all’esercito di giornalisti professionisti e pubblicisti senza un posto di lavoro o nel precariato. Nel 2016 sono stati versati a favore dell’editoria 18milioni di euro e quasi il 90% sono finiti in mano a imprese editoriali. Le maggiori sovvenzioni sono state assorbite da Avvenire, Italia Oggi e Libero. Nulla contro, ci mancherebbe. Ma quante cooperative di giornalisti potrebbero vedere la luce se lo Stato desse avvio a una riforma del genere? Basterebbe portare il decreto ministeriale a titolo di garanzia presso una banca il cui istituto coprirebbe i costi relativi agli stipendi. Ma, l’aspetto più importante, è che da quel momento in poi quei giornalisti sarebbero davvero liberi di scrivere quel che vogliono, senza condizionamento alcuno a tutela della democrazia, della verità e della civiltà. L’autonomia vera si può raggiungere solo così, il resto sono mere chiacchiere. E chi non lo comprende o non sostiene questa battaglia, non venga poi a lamentarsi di eventuali censure, silenzi e quant’altro. Forse è anche vero che a molti lo status quo fa comodo: il giornalismo investigativo all’americana spaventa chi ha sacche di potere da salvaguardare, mantenere un capro espiatorio su cui puntare il dito all’occorrenza torna utile e chi si è ormai adagiato ha sempre un alibi da esibire. Come per tante altre tematiche, occorre capire in che direzione vogliamo andare, ma con una seria presa di coscienza e con coerenza. Senza più ipocrisie e, soprattutto, senza inutili atti di coraggio a metà.

Matteo Lauria

giornalista

direttore responsabile I&C

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